Herder rifiutava la teoria settecentesca che affermava l’originaria identità delle menti umane e credeva nell’esistenza di eterne diversità: gli individui e le nazioni. Pensava che i caratteri nazionali dovessero rimanere identici a loro stessi nel corso dei millenni, che dovessero informare la lingua e la vita delle nazioni. Queste dovevano crescere libere e solitarie, chiuse nel loro mistero, impenetrabili allo straniero. Per rigenerare l’umanità era dunque necessario che le singole nazioni modellassero la convivenza secondo i dettami di archetipi antichissimi. In tal modo Herder giungeva a conclusioni opposte a quelle cui era pervenuto Rousseau: la nazione non nasceva da un moto delle volontà tese a costruire il futuro, ma restava radicata nella natura, sepolta nel passato. Il compito dei politici consisteva nel far poggiare gli Stati sulla loro base naturale, nell’accordare le leggi con le forze vitali oscuramente latenti nel grembo della società. Essenzialmente, la nazione più felice per Herder è la nazione più serrata nel proprio centro, la nazione più nazionalista: ecco dunque spiegato il perché abbiamo associato con cotanta forza il termine nazionalismo con la figura di Herder, che può esserne definito il precursore.
La prima teorizzazione ad aprire la strada alle concezioni romantiche di nazione, intesa come consapevolezza del patrimonio comune di un popolo, si ebbe quindi proprio con lui. Il filosofo tedesco concepì la nazione come una possente forza, dotata di individualità autonoma e attivamente presente nella storia. Fu ancora Herder a sostenere il valore originario della nazione e a creare la parola “nazionalismo”. Egli, infatti, può essere considerato l’iniziatore della dottrina che esalta la dimensione nazionale, contrapposta a quella di matrice tipicamente illuminista che sostiene l’esistenza di una “natura umana” fondamentalmente universale. Per Herder i gruppi umani sono suddivisi ab origine in nazioni, ciascuna con un proprio “carattere” che ne definisce alcuni tratti fondamentali permanenti. Il carattere nazionale, plasmando la lingua, i costumi, l’arte, la filosofia e le idee morali, è la vera matrice profonda della storia dei popoli. In questo quadro, la storia dell’umanità non sarebbe altro che l’intreccio e lo sviluppo delle diverse storie nazionali. Espresso in questi termini, il concetto di nazione assumeva caratteristiche “etniche”, che lo rendevano congeniale agli sviluppi che venivano maturando nella letteratura romantica tedesca, nella cui poetica assunse un ruolo cruciale. Fu in questo ambito culturale, dunque, che si cominciò a dare risalto alle caratteristiche etniche dell’appartenenza nazionale e, quindi, ai dati geografici, linguistici e culturali.
Lo Stato, secondo la sua concezione, doveva poggiare sulle sue basi naturali, accordando le sue leggi alle leggi naturali del popolo e unendo armoniosamente le forze della nazione in una civiltà conchiusa. Negli Stati europei le consuetudini erano politicamente spente, ed ecco perché si volgeva, pieno di speranza, alle ancora selvagge popolazioni slave. L’Illuminismo era, in Germania, anzitutto una politica. Ad esso Herder opponeva una nuova politica, che voleva sviluppare quelle forze oscure che per gli illuministi rappresentavano appunto l’oscurità. Ne veniva un nuovo concetto di civiltà, che non era più intesa come qualcosa di astrattamente cosmopolitico, bensì come il naturale dispiegarsi delle forze peculiari della nazione: “Ogni nazione ha le sue ricchezze e proprietà dello spirito, del carattere, come del paese”. Erano queste le ricchezze che andavano ricercate e coltivate. Lo Stato doveva favorire ciò che giace in una nazione e destare ciò che in essa dorme. Il monarca doveva possedere un senso nazionale, da promuovere e conservare ad ogni costo. Il nazionalismo è servito.